“Я”. Io? “Ja”. (O di un titolo – in traduzione)

Un libro che è epopea storica, cioè individuale.
Un libro che è labirinto a rizoma di un’anima ed enciclopedia della sua lingua.
Un libro che è raffinata polifonia letteraria.
Nella sua magistrale conduzione delle parti, un libro che è orchestrazione – di un secolo intero.

Lestnica Jakova, di Ludmila Ulitskaya, è un romanzo che infila cento anni esatti di storia (1911-2011) – di una storia individuale che si fa culturale, nazionale, sovranazionale, internazionale. Una scrittura densissima, quella di Ulitskaya (non sindachiamo sulla traslitterazione del nome, qui), che piega a sé diversi registri, saperi diversi, diversissimi sapori. “È un valzer, questo libro,” mi disse l’autrice l’ultima volta che ci incontrammo nella sua casa di Mosca. Intriso della musicalità che lo sostiene, certo. Ma soprattutto, strutturalmente. Per il diverso statuto delle due parti testuali su cui si innesta. Alternanza di ritmo tra il racconto – il resoconto – e il ricordo. Raccordo.

C’è una parte narrativa, in questo romanzo: prepotentemente autobiografica e però presentata attraverso il prisma della riscrittura letteraria; sostenuta da sapienti dosaggi di descrizione e di dialogo – dialoghi dal ritmo perfetto, lei sceneggiatrice qui porta in scena sapienti duelli di punti di vista, magistrali equilibri di detto e non detto. E come sempre in Ulitskaya, raffinatissima è la fusione di umorismo e poesia.

C’è una parte di lettere, poi: dalla tonalità diversissima. Qui, è l’intimità autobiografica della riflessione; la diffrazione di una percezione personale della realtà; l’incalzare crescente della disillusione; l’esperienza della tragedia; l’incapacità di orientarsi in una realtà che sfugge di mano: il tutto risolto in una scrittura invasata, infiammata, che via via si spegne e si riempie di interrogativi, dubbi – ancor peggio, di tremende certezze. Una scrittura giocata soprattutto in ciò che viene nascosto “sotto” le parole. Uno stile che rispecchia il tempo storico che passa, con capovolgimenti epocali; un linguaggio che esperisce trasformazioni inevitabili; una confessione che da insistita ricerca del proprio interlocutore diventa disperato inseguimento intimo di (almeno una) verità. E sono lettere vere, queste. Pagine sacre, cioè.

Un testo-sfida, si capisce già. Per il traduttore intendo. Una sfida ad amplissimo spettro: ve la racconterò. Ma non adesso non qui.

Qui riprendo solo una cosa. Perché in qualche modo ve l’ho “promessa”, l’altro giorno, a Mosca. All’incontro tra scrittori e i loro traduttori che c’è stato alla Biblioteca di Letterature Straniere “M. Rudomino”. Ve ne avevo accennato già, sì. Nel precedente Post (scriptum). E dell’incontro c’è notizia in NEWS.

Lì, – a Mosca, a Mosca – di questo testo, io e l’autrice abbiamo letto la fine.

Quel passaggio magnifico, un crescendo imperioso, dove le voci si sciolgono nella trasfigurazione di un gran finale che si apre all’eterno. Se avete voglia di riascoltarlo lo trovate all’ultima voce di (Mosca, Italia). Io mi emozionavo ogni volta che lo riscrivevo. Mi emoziono ancora, ogni volta che lo rileggo. E poi, qui, lo legge anche – Lei.

Ma la questione è che l’autrice legge il finale di un romanzo che si chiama Lestnica Jakova, letteralmente, La scala di Jakov. Io, leggo la fine di un romanzo che si chiama Il sogno di Jakov. Vi avevo promesso, ecco, di spiegarvi il perché.

Perdonatemi il tono discorsivo, magari poi rileggo e taglio via. Ché non c’è mica tanto, da spiegare. Se non un tentativo. Questo: di restituire in qualche modo, affannosamente, tutta la carica semantica, culturale e simbolica espressa dall’originale. Di restituire almeno – se non la pienezza dell’accordo autoriale: la seduzione di alcuni dei suoni armonici.

La sostituzione in sé è legittima e semplice. Com’è noto, nell’episodio biblico della “scala di Giacobbe” viene narrato il sogno del patriarca, e l’episodio stesso viene spesso denominato, nella nostra tradizione, “Il sogno di Giacobbe”. Nel romanzo, poi, c’è un passaggio che esplicita questa “equivalenza”:

Dall’impalcatura scende una scala, interpretatela come volete a misura della vostra competenza; potete immaginare che è la “Scala di Giacobbe”…
(…)
“Bello, Nora! Bellissimo! Lo facciamo! Solo non ho capito, cos’è questa ‘scala di Giacobbe’ di cui hai parlato?”
Nora guardò Berg stupita: “Come ‘cosa’? È il sogno del patriarca Giacobbe – di Yaakov, di Jacob – vicino a Betel. Sognò una scala con angeli che salgono e scendono e al vertice della scala il Signore Iddio che pronunzia qualcosa del tipo – tu qui giaci stravaccato e io ti dico, la terra su cui stai dormendo ti sarà regalata, io benedico te e tutta la tua discendenza, e in te anche tutte le famiglie della terra.”
“Un sogno bellissimo. Chissà perché non me lo ricordavo.”
“Lo avrei perso anch’io: è Tusja che me lo ha indicato. (pp. 525, 526)

Diciamolo, però: la “scala” dell’originale qui non è la lestvica, con cui nell’antica lingua slava ecclesiastica viene designata la scala prodigiosa che collega la terra al paradiso nell’episodio della Genesi (termine che, per inciso, inevitabilmente rimanda alla ‘scala’ della divina ascesi, la Scala ParadisiLestvica raja – di Giovanni Climaco). La ‘scala’ che troviamo nel titolo del romanzo di Ulitskaya è invece detta, in russo moderno, lestnica: una scala ben piantata nella dimensione dell’uomo – dell’uomo Jakov (Jakov, non Giacobbe, NB) – lungo la quale si muovono, salendo e scendendo le traiettorie esistenziali dei protagonisti, le generazioni che hanno preceduto lui, Jakov, e che a lui sono succedute.

Il punto dolente di tutto questo ragionamento, è il fatto che nel romanzo appunto Jakov non è (solo) il veterotestamentario Giacobbe, è anche e soprattutto Jakov, il protagonista del libro e, ancor prima, personaggio realmente esistito, con altro cognome ma con lo stesso nome, come riportato oltretutto nell’albero genealogico che l’autrice riproduce alla fine del libro. Insomma, non lo si può ribattezzare Giacobbe: come mantenere allora la doppia lettura di un nome che in traduzione italiana (non così in inglese, WTF) inevitabilmente si sdoppia?

Cercando di “sdoppiare” la seduzione altrove. Di “caricare” il paradigma altrimenti. Di marcare la polifonia in altro modo, in altro luogo.

Di qui la scelta di sostituire il Sogno alla Scala: il termine ‘sogno’, come si è già visto, è non solo filologicamente ammesso e narrativamente esibito ma assume, sussume e manifesta, anche, l’inganno che emerge sempre più impietoso man mano che si sviluppa l’epistolario, e che ad un certo punto del romanzo viene così formulato:

«In questi sei mesi ho capito di quali illusioni ci siamo nutriti e, mi pare, ora sono in grado di indicare tutti i punti in cui gravi errori sono stati commessi. È una presa di coscienza di ciò che accade a tutti noi, la comprensione degli eventi: l’unica cosa che ci rimane». (p. 437)

Sogno illusorio, sogno infranto, che ritroviamo anche nella tirata del Gran Finale:

… Il piccolo Henrich, il bambino insopportabile che si buttava per terra e batteva i piedini, che sognava di volare in aliante o in aereo, che non fu ammesso alla sua amata aviazione, ma sì, perché suo padre Jakov era un nemico del popolo e aveva rovinato tutto. Gli avevano tolto il sogno, al bambino, la speranza, il luminoso futuro… [luminoso sì non radioso, qui ;-)] (p. 592)

Insomma, una mossa da traditore. Cambiare l’in-tono. Togliere la scala. Invitare in un Sogno. Che narrativamente la includa: e che include, qui, in ogni parola e in ogni esistenza – ogni scommessa e silenzio.

Un tentativo, insomma: di trasferire i pesi – specifici – da una parola all’altra. Nella resa italiana, alla fine, la polisemia del titolo, le diverse eco che essa suscita si mantengono, ma si arricchiscono della realtà – della carne e dello spirito – del libro stesso, realizzando appieno la funzione peculiare di questa parte essenziale del paratesto. Much ado about nothing?

Fermi lì. C’è un a parte. Anche questo ha in qualche modo a che fare con Jakov vs. Giacobbe. Perché una seduzione bellissima si perde ancora nel nostro alfabeto: la duplicità intrinseca nella cifra “Ja.” Con essa Jakov spesso firma le proprie lettere e i propri diari. Innocuo dittongo – sigla del suo primo nome: esso corrisponde in russo anche al pronome di prima persona. “Io”. Я. (Ed è grafema/fonema: ultima lettera dell’alfabeto. Ma questa come ultimissima eco). “Ja”.

Un sacrificio, una scelta. E qui abbiamo parlato solo del titolo.
Delle altre 597 pagine in traduzione vi racconto altrove.

Vostra Margo.

PS.
“Una sera con accento italiano”.
Mezzanotte a Mosca.
Ma noi i gatti li chiamiamo coi baci.
O per nome e cognome, parbleu.

(In copertina: fotogramma a fine del nostro incontro, Mosca, 20 maggio. È un regalo gentile di Z.)