“Impossibile, i manoscritti non bruciano (Rukopisi ne goriat)” – risponde in Master i Margarita il “mago” Woland al Maestro che afferma di avere distrutto, gettandolo nella stufa, il suo romanzo su Ponzio Pilato. No, i manoscritti non bruciano. Impossibile distruggere le pagine che ci hanno preceduti: esse si depositano nella memoria collettiva dando corpo alla colonna del nostro sapere, dove il già detto si sovrappone alla parola nuova, catena di testi che si trascinano dietro la memoria dell’intertestualità che li nutre. La parola è un essere vivente, come ben sapeva Sartre: indipendente dalla volontà del suo autore-scrivente, leggibile anche quando il momento della sua produzione è irrimediabilmente perduto. Ed ecco l’immagine di questo “racconto aperto”, libro che cresce mutando forma, che coinvolge nella sua lettura il fruitore, principio attivo di interpretazione trascinato nella regressione infinita di una semiosi virtualmente illimitata (pagine si depositano su altre pagine, le sussumono e le modificano) che i limiti (d’acciaio?) della nostra enciclopedia incorniciano secondo i modi di un modus, di una misura. E oltre al testo, ciò che ne è alla base, che gli è isomorfo, il segno: significante e significato indissolubilmente legati come il recto e il verso di un foglio di carta, entità proteiforme, mutevole e metamorfica che vive sulla dialettica di presenza e assenza (uno spazio di colonna che esibisce anche il suo negativo, il suo calco), per identificarsi nell’idea di “taglio”, “apertura”, “divaricazione”. Un’opera che istituisce e fonda la sua propria semiosfera, per recidere il non pertinente ma concedersi come luogo di riempimenti possibili. Pagine (bianche?) che si offrono per essere tagliate, forgiate, in un silenzio imperfetto che è nel contempo spazio di parola nascente e luogo di ascolto, paradosso di scrittura che è traccia e assenza, che è sguardo che si lascia guardare. Una struttura che recide lo spazio dunque, lo segmenta, lo decide cioè: e con le sue pagine anima una sua categorizzazione del mondo. Che interseca, nel suo sviluppo, gli altri percorsi interpretativi: graffi di vita, segni di altre esistenze che si mettono in scena; che esibiscono la propria verità: E con ciò, il proprio linguaggio.

Rukopisi ne gorjat, 1994
(steel, paper; height 175 cm)
Esposizioni: Galleria Bevilacqua La Masa, Piazza S. Marco, Venezia, Padiglione Venezia dei Giardini della Biennale di Venezia, 1994.
Pubblicazioni: 79^ Mostra della Galleria Bevilacqua La Masa, Tipoffset Gasparoni, Venezia, 1994;
Triplo Zero, Nuovi indirizzi della giovane arte in Italia, a cura di Massimo Bignardi, Tipolitografia INCISIVO, Salerno, 1998.
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[Nelle foto di copertina: nello sfondo, dettaglio di un’opera di A. Maccà]