Didascalie in forma di diapositive verbali
Am I arrogant, father?
(Lars von Trier, Dogville)
(Fuori coro. La prima nota è un tradimento. Uno scandalo, cioè. Una trappola, nel senso vero).
Una tomba, una graticola. Rosso sangue e una firma. A.D.P.
©VM (tra questi scatti verbali, qui e quasi ovunque: mancano gli scatti di Max);
gli ©VM qui rimandano altrove – rimane il dialogo senza sue repliche.
solo alcune immagini a dare indizi di questa forma – pura descrizione, un realtà.
A dispetto, forse, di una prima impressione, la ricerca che porto avanti ormai da qualche anno riguarda più una percezione personale di questi luoghi che una loro catalogazione o documentazione. A volte si tratta di itinerari dettati dal caso, quasi risposte a una sensibilità istintiva che mi porta in un determinato posto piuttosto che in un altro. Inizialmente mi sono avvicinato alle chiese per ammirarle da un punto di vista puramente estetico, architettonico e decorativo. Ma nello sviluppare questa lenta ricerca, composta esclusivamente da immagini, altri stimoli si sono associati a quelli originari. La natura mistica intrinseca a questi luoghi, spesso amplificata dalla grandiosità delle strutture e dalle decorazioni più o meno fastose, mi ha coinvolto nella sua dimensione veicolata anche da altre suggestioni – dalla luce in primo luogo, ma in generale dall’atmosfera, anche dagli odori. Mi sono così soffermato a riflettere sull´influenza che questi luoghi hanno sulla popolazione (…) un’influenza che, raggiungendo quasi a volte forme di ipnosi collettiva, diventa esercizio di potere sulla collettività e momento di gestione di ingenti somme di denaro. Di qui il titolo. In questa dimensione, trovo particolarmente suggestivo il contrasto tra alcuni luoghi espliciti di questa magniloquenza, in cui lo sfarzo architettonico e decorativo è esibito con arrogante supremazia, e lo spazio invece intimo, minimale quasi, di altri luoghi, che sottolineano la dimensione collettiva sì, ma anche intima della fede.
Dice Massimo Boldrin. Viaggi, dunque. Iniziazioni? Impressioni. Geografie del pensiero. Intorno ad immagini: sacre, nel senso dell’Io. Perché Dio qui è ovunque, senza essere mai. Non è nelle definizioni. È nelle pieghe del senso. Nelle piaghe della cristianità? Nella negazione della magniloquenza. Lì sì, come nei graffiti metropolitani: “Dio c’è”.
È un cammino complesso, quello di Massimo. Come lo è il caos. Il caso cioè. Perché lui si imbatte, in queste archeologie del divino. Non ha la Rivelazione. Ha la rivelazione – della rivelazione cioè. È un mondo ontologicamente riflesso il suo, come in uno specchio. Alla soglia di questo mondo, il massimo dell’inganno e della seduzione.
Ma non parliamo di architetture qui, né di potere. Qui parliamo “del”. Del nostro tempo. “Nella vertigine – (Pessoa) – del tra”. (E non parliamo di fotografia. La fotografia è il messo. Noi qui non parliamo. Guardiamo soltanto): un intervallo tra il mondo interiore e quello esteriore. Già William James, nel 1902 (Le varie forme dell’esperienza religiosa), ipotizzava: “Ciò con cui ci sentiamo connessi nell’esperienza religiosa è il prolungamento inconscio della nostra vita conscia”. Il nostro grado di realtà è il nesso e la mediazione. Un nulla concreto. Una nebbia, tra visibile e invisibile. Non sono visioni, quelle di Massimo. Non hanno l’ardire dello sguardo interiore. Ma sono vedute. Punti di vista. Sguardi. Icone? Litsa.
(Lo sguardo, manifestazione dell’ontologia). Piccole grida che non sono superflue. Apparizione o apparenza? Confessioni. Concessioni. Simulacri. Simulazioni. Etiche sacrali che diventano estetiche. Vedute interiori? Andiamo oltre. Oltre il senso comune. Oltre un oltre: il paradosso. Mistiche? Mistificazioni. È in un giocattolino, la poetica di Max.
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Perché Massimo ci porta dentro – ossimorica_mente – una metafora. Divina? Umana, fin troppo. Tipologie di tentativi. 100×80; 20×30; 120×30; 80×30; 50×60; 50×75; 80×30. Operazioni aritmetiche di infinità.
Subito, molto bianco. Come un rumore di fondo. Un suono, bianco. Significazione che diventa puro significare. Significanza. Cristo è l’in-tono. «Se dovessi scegliere tra la verità e Cristo sceglierei Cristo» (Dostoevskij). Un gesto di accoglienza. Il gesto. Il gesto di inizio. Soffusa non architettura della Potenza. Perché in principio era. Il silenzio di Dio.
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Poi, “quando si arriva al limite del linguaggio” (Wittgenstein): inizia la scrittura. Sacre Architetture. Inizia la storia di una corruzione. “A”.
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La storia di un chiodo fissato sulla volta della civilizzazione. Il chiodo di Cristo nella storia dell’umanità. Un cielo che diventa muro. Il chiodo del dubbio. La corruzione del Tempo. Inganno di tradizione. Massimo ci mostra la crepa, nell’intimità.
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Di qui inizia il suo viaggio, per città invisibili. Sono stazioni ideali, di una passione. Linee bianche tracciate per terra. Nemmeno didascalie. Frammenti di mondo, in un palcoscenico vuoto del mondo.
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La cornice, nel Cristo: comprime un gesto, di infinità. Quadri di un’esposizione? Non sono cornici, queste. Non sono verità di fatto. Non sono nemmeno menzogne, di fatto. Forse finestre. Squarci nel muro, sul nostro mondo interiore. Fughe prospettiche nell’invisibile. “Orizzonte, non limite”. Immagini che congiungono mondi. Sogni? Eyes wide shut.
<i nostri incisi sono ex-ergo al contrario: parole su immagini che sono nel testo, senza essere esposte>.
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Cristo ora è morto: risorto: ritorto in storie. Di umanità. Diventa una croce. Una croce di firma. Una forma di ferro. Lotta con l’ombra. Diventa luce. (Oro, non colore). Diventa corpo. Sotto, il mondo invisibile. Riflettori, a illuminare l’ascesa. Celebrazione? Celebrità.
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E imperiosa un’incursione. L’avversario. L’insinuazione. Quasi un miraggio?
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<il re volta le spalle, al potere atemporale> : <ma anche qui, religione è soltanto persone. L’altro, qui: siamo noi.> “Non posso credere in un Dio personale; ma potrei credere in un Dio etico“ (Borges). Si insinua nel cuore, un centro di asimmetria.
<e per il dio dei graffiti, profane sindoni stese ad asciugare sopra le porte sacre di un garage.>

Dove ci porta, questo realismo. Respiriamo l’etereo? Like a patient etherized upon a table. Respiriamo l’eretico. Un valzer di addii. Il ritmo ternario di una dissacrazione. (Insostenibile, anche per chi: un’ipotesi vicina al fantastico?).
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L’architettura diventa scenario. Con tracce dissolte, spiriti umani che sembrano, loro, di eternità. Rimane solo una traccia, su di un cuscino.
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<dopo, non è più scena e non c’è più nessuno. Cuscini intonsi. Non c’è mai stato, nessuno>.
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Che cosa rimane, di questi allenamenti dell’anima?

<forse il dio di un quotidiano diverso, il terreno separato dal mondo, spazi non di questo mondo. Senza potere, architetture onnipotenti. Scale di Giacobbe, e croci doppie che impongono – loro – il proprio punto di fuga. Il Dio dei dettagli? Dettagli di un dio>
Spazi-tempi, destino delle nostre infermità e della nostra superiorità. (Penitenze? Penitenziari). Poi, la risposta a un dialogo tacito. A un dialogo muto. Nella parete, di fronte al Cristo. Tentacoli di un’ombra sulla città. La pétite mère a des griffes (Kafka). Città artigliata. Artiglierie.

Perché la luce e ciò che essa produce non sono la stessa realtà. Nello stomaco stesso di una città, e di un intero Paese, si adagia l’architettura di un potere straniero. Atterra in noi con i colori dell’extraterreno. Come un’astronave una e trina si incunea e cospira dall’aldilà.
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<Visioni di una città reale. Vedute di una città ideale. Basta una definizione, per mettere in dubbio l’oggetto? Fuori, colore e gente.>
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Dentro, nero e niente. Processione di spettri. Burattini di dio. Comparse a scomparsa su nastri infiniti, consunti. Macchie di uomini. Bautte sacre. Guardie. Guerrieri. Folle, di folli in cristo. Ombre del sé.
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Ma in una nicchia più intima un film di memoria. I contemporanei del nostro futuro. Pellicole acide si sviluppano in croci. Segno dei templi.
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Una croce bianca di fede. Sign o’ the times. Una croce nera di morte (della fede?). Forse un precipitato di arte. Colori e forme che implodono in una fede moderna.
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Nessun programma. Qualche quadrato. Dei telegrammmi.
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<Archeologie del potere? Una presenza umana, per un attimo solo. Il tentativo di insinuare tra il sì e il no, furtivamente, gli elementi della sensibilità. Poi, una nuova eclisse di ogni realtà>.
E l’unico luogo diventa un logo.

Dopo aver scandagliato le stazioni immaginate di questa via costellata di croci, proviamo allora a ricomporre le foto di Massimo come fossero delle “vive pietre”. Schermo di un santuario moderno. Costruiamo il muro vivo della sua iconostasi. E avviciniamoci alle porte, di questo non-Io. “Dio c’è, perché c’è la Trinità di Rublev” (Florenskij).
Rimangono infine dettagli, segmenti di forme e pensieri. Un macrocosmo che si impossessa dei – Microcosmi. Sempre, un ritmo di buio, di colore e di luce. Pesi diversi, etici, estesici, estetici. Interrogativi finali.
Un pannello, l’ultimo forse. Poi quasi un flashback della realtà.
Alla realtà ritorniamo, attraversando uno specchio di fede.
(una serratura: il sacro graal?)
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Ricostruiamo i colori del dubbio.
“S. Antonio. Infrarosso. 1999”
S. Antonio. Padova. 2006.
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Su tutto un evento, una performance.
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Quella di Max?

Architetture del potere, 2006
Padova, Galleria Sottopasso della Stua, 2007, a cura di A. De Lucia
Quaderni del Centro Nazionale di Fotografia, Mostra e catalogo a cura di E. Gusella, 50 pp.
www.massimoboldrin.it