Poche parole. Perché ce ne sono troppe, in giro. Troppe. Pulviscolo di polvere e sangue e m*** negli occhi, scusate, dentro al cervello. Parole-violenza, le chiamerebbe Bachtin. Oggi, forse più che mai, è ora di scomodare davvero l’ultima frase del sacro Tractatus di Wittgenstein (lo riporto con le virgole strambe della traduzione): «7. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». Anche se chissà cosa vuol dire quel “non si può”. E però. Oggi il primo uomo volava nello spazio. Io lo festeggio. Oggi il mio primo drone è volato in un suo spazio.

Un gioco. Non solo. Un simbolo, sempre. Un omaggio.
Alla scienza, cioè alla cultura. Alla cultura, cioè alla lingua. Alla mia lingua adottiva – mia lingua matrigna mia lingua madrina. (Tra parentesi, mi permetto subito – così la finiamo qui: non angustiatevi tanto a voler salvare la cultura russa. La cultura russa, da sempre, si salva da sé. Preoccupiamoci di salvare la nostra, cultura. La cultura della cultura cioè. Che non siamo, messi bene, noi. Nemmeno un po’).
Il drone? “Druno” per i suoi amici, DR1, ДП1 il suo nome ufficiale, дэпэодин, depeodìn. C’è un gioco di alfabeti nel suo battesimo, ma poco importa. Un’idea, quella di Druno, per il lancio di un libro: che è diventata idea per eventi. In venti di guerra, eventi di pace. Di cultura, cioè. Di traduzioni, sempre. Di trasporti in altri spazi di conoscenza.
Poechali!, la frase più famosa del mio popolo folle, per decollare ho premuto un pulsante dove c’è scritto così, quello che allora ha detto lui. Gagarin, l’eroe più popolare di tutti i loro tempi, sta per raggiungere il cosmo e dice la cosa che diceva a ogni seduta di addestramento, “Partiamo!”. Niente di più, dopo che all’ultimo – il conto alla rovescia era già partito – gli avevano avvitato il portellone un po’ sbullonato.
Il 12 aprile io avevo voluto partire con questo sito. Spazio altro di incontro. Luogo ideale di un “tra”. Il 12 aprile, oggi, esco da un po’ di silenzio. Ma solo per volare. Listening to the winds of changes.
Quel 12 aprile, 1961, veniva ben prima di ogni passo dell’uomo, di ogni balzo dell’umanità. Nessuna penna da migliaia di dollari, soltanto matite, e un sorriso enigmatico, amato dal popolo – evidentemente, amato dal Dio in cui lui non credeva, dicevano ma non era vero, che non aveva visto “lassù”, dicevano che avesse detto ma non era vero, che dal suo cielo l’aveva strappato in un modo strano, in un posto strano, di una stranezza che forse non verrà spiegata mai. Avrebbe potuto salvarsi, lui pilota espertissimo, lanciandosi con il paracadute ad esempio – ma l’aereo sarebbe finito sopra un villaggio. Nella vita, lo sa bene Lotman, c’è sempre una scelta. Scelta è intersezione di dubbio e di conoscenza, diceva. Scelta vuol dire libertà, diceva anche, ma diceva c’è anche un’altra parola: responsabilità. Gagarin forse è morto ucciso. Di certo, Gagarin è morto per non far morire.
La conquista dello spazio, si chiamava quella guerra, anche se era freddissima ci avrebbe portato così lontani, prima loro poi noi, ma chi è loro e chi è noi io non lo so. I russi la chiamavano zavoevanie kosmosa se il soggetto erano gli americani, una conquista che si otteneva con la forza, le armi, il sopruso cioè. Osvoenie kosmosa era invece se si parlava dei russi, perché riguardava qualcosa che era già proprio, svoe, e andava soltanto riportato a casa.
Io il mio primo drone l’ho lanciato dalla città in cui sono nata, una città che i miei amici russi hanno imparato ad amare, non solo perché è “vicina a Venezia”, così come il mio mare, la mia piccola splendida Grado, così vicina a quella Trieste in cui adesso lavoro in cui sogno di vivere, una città con il mare, ti immagini?, una città che mi ha reso più dolce ogni volta tornare da quella Russia da cui non si vuol mai tornare, a cui si vuole tornare sempre. Di fronte all’infinito della nostalgia – l’infinito del mare. Chissà perché, nel mio destino è entrata la Russia. Chiunque abbia avuto a che fare con la Russia sa che cos’è il mal di Russia. Adesso anche il mio destino, ha il mal di Russia. E il destino di tutti quelli che hanno la Russia nel loro destino. Nel desiderio. Nella sofferenza. Nella nostalgia. Nelle preghiere a chiunque sia in grado di restituirci il mondo, tutto il mondo, adesso.
Il mio primo lancio l’ho fatto dal PdV. Abitavamo vicino, al Prato della Valle, io mi allenavo tutti i pomeriggi, i cani di tutte le case che si affacciavano sul Prato si allenavano insieme a me. Erano cani di marca, quelli del Prato, quasi più alti di me ragazzina, diventavano matti a vedere una treccia lunga che da ferma di scatto correva veloce, un gioco pazzesco, io avevo paura, c’erano alani e dobermann, mio papà no. Mio papà si sedeva sulla panchina di marmo, sotto la statua del padovano illustre di turno, e cronometrava. Se gli dicevo “papà ma ci sono i cani” lui mi cacciava un urlo che sentivano anche i padroni dei cani, almeno li richiamavano, e io sopravvivevo a una fine inevitabile e pulp. Adesso li ho io, quei cronometri, e con i giri infiniti che ho fatto intorno a quel Prato li ho dentro all’anima.
Il Prato della Valle è la seconda Piazza più grande d’Europa, ho scoperto da grande. La prima è la Piazza Rossa. Il mio primo volo a bordo del drone mi porta nel sogno da piazza a piazza, che strano tessuto è la vita. Il Prato della Valle è rotondo, ovale in realtà, come l’ellissi di un’orbita, sembra fatto apposta ad accogliere i miei due fuochi, l’Italia e la Russia, che bruciano entrambi adesso, che bruciano troppo. La Piazza Rossa è quadrata, rettangolare in realtà, ma è una superficie curva che scivola dentro all’infinito. La quadratura del cerchio della mia vita.
La Piazza Rossa, la piazza più grande – d’Europa, sì.


Si nota a s/o lo Stagno dei Patriarchi.
E la rampa di lancio del mio primo volo è il PdV. No, non è solo il Prato della Valle.
La rampa di lancio per una ricognizione del mondo è il Punto di Vista. È una rampa molteplice e plurima. E il mio viaggio è “tra”. Il mio punto di arrivo è seriale, com’è la traduzione. Non sono un killer, però.
Io non so cosa pensiate di questa guerra, né voglio saperlo. Già lo so di troppe persone che io non conosco e che non conoscono me, e che troppo spesso non conoscono loro né l’una né l’altra lingua di quelli che muoiono. Ma a loro basta un simple english per avere la certezza morale di dovere mandare le armi. Io di questo non voglio parlare.

Però l’altro giorno insieme ai miei studenti ho guardato l’intervista a Muratov dopo che hanno chiuso la Novaja Gazeta – gli occhiali della Politkovskaja le foto con Gorbaciov – un’intervista toccante per intelligenza, lui Premio Nobel per una cosa che oggi non c’è, che forse non c’è mai stata davvero nella storia dell’uomo, Gino ci manchi a indicare la Strada. In Russia la parola “guerra” oggi è proibita. La guerra c’è e non si nega, però quali ne siano i veri motivi è storia di molti, moltissimi, P.d.V. Ma la cosa che lui ci consegna, Muratov, in quell’intervista, è in una frase: “Slovo mir esche ne zapreschaetsja”. «La parola “pace” non è ancora proibita».
E allora vola, mio piccolo Druno di pace. Di pace interiore?
Poechali, mir! Che non c’è tanto tempo.
E chi è senza peccato scagli la prima bomba
