(Che non è finlandese. È una postilla stivalata. Pardon)
È che mi è venuto mente quella sera che passeggiavo per Mosca, nei dintorni della Novoslobodskaja, quella stazione piccola con le vetrate sotterranee, che se esci cento metri più in là si chiama Mendeleevskaja, non è più linea marrone ma grigia e non ci sono vetrate ma lampadari a forma di formule chimiche, però Mendeleev non è quello della tavola periodica per i russi è quello dei quarantagradi della vodka, anche se c’è chi dice sì c’è chi dice no, e in ingresso alla Mendeleevskaja o in uscita che non è scontato sia dalla stessa parte c’è un monumento a un cane caduto una bellissima storia tristissima che non vi racconto qui, perché qui sto solo cercando di uscire dalla metropolitana. Insomma, indugiavo nei dintorni della Novoslobodskaja, ero da poco uscita di casa e volevo andare… ovunque fosse non ci sono andata. Perché era inverno, c’era neve, c’era ghiaccio, c’era un freddo p… russo: e ai miei stivali invernali di Prada si è spaccata la suola di gomma a metà. Per fortuna che Mosca non dorme mai. A sera inoltrata, mentre in Italia le pastasciutte già conciliavano il sonno, io saltellavo fino al negozio più vicino di scarpe per acquistare un paio di indistruttibili stivali ex-sovietici, destinati a non entrare di moda mai. “Tutti i giovani d’oggi sono stupidi e ignoranti. Per loro un paio di stivali ben lucidi vale più di Pushkin”, scriveva Dostoevskij. Anche se scritto così invece lo ha scritto Nori, Paolino merci.
Mi viene in mente poi la gomma delle gomme delle macchine russe, che lì succedeva il contrario: quando era estate si scioglievano e le auto restavano incollate all’asfalto. Io invece avevo un fuoristrada Lada Uaz, una fatica a parcheggiarlo che la palestra non mi serviva più, io tutta fiera perché aveva i comandi in cirillico e scherzavo che dovevo cambiare il burro ai freni (maslo è sia olio che burro, sempre per via della sinonimia, spiritosissima). Solo che il fuoristrada sovietico io lo avevo a Padova, un’estate si è rotto il riscaldamento per fortuna che era estate direte. Eh sì, perché secondo voi nelle macchine russe se il riscaldamento si rompe fa freddo? No, fa un caldo boia, perché se si guasta a meno cinquanta vi voglio vedere. A più cinquanta in pieno agosto nel nord est Italia hai voluto la macchina russa, adesso pedali.
E ditemi ancora che il punto di vista non è una realtà.
Ma per chiuderla con i calzolai, mi ero dimenticata che noi avevamo un parente scarparo. Lavorava a Venezia, faceva pure calzari per i cardinali, tra i garzoni aveva il futuro Silvan che però non faceva ancora magie, e ogni tanto quando tornava a casa ubriaco il sior Braga cascava in canale, una volta aveva le tasche piene di soldi che sua moglie glieli ha fatti pescare stirare e stendere ad asciugare una banconota per ogni molletta che neanche i mafiosi a New York. E mica era russo, il zio Mario. Ecco aveva un modo di dire, lui, quando andavi avanti con la stessa solfa, non la finivi mai, ingarbugliavi le cose, la vita, i pensieri, ma anche cercavi un modo per andare avanti, per darti un senso, passo dopo passo, e trovare una direttiva, anche se rocambolesca, insomma il zio Mario diceva: “E su careghe”. Mi viene in mente che “e su careghe” è proprio il modo in cui scrivo io.
Ecco, sarà il mio manifesto, “Del Sucareghismo”. Mi crea un po’ di imbarazzo la trascrizione in russo, ma ci tornerò. (Per chi vuole intanto un accenno era qui). Vi avverto solo che contro ogni schiaffo al gusto del pubblico, io tirerò su nel mio barchino Pushkin buttato a mare dalla Nave Contemporaneità. Anche perché Pushkin era negro, e con questi chiari di luna non ci facciamo una bella figura. Che poi viene il gatto stivalato che si mangia i mototopi da Marte e ci ritroviamo alla fiera dell’Est.
Ivan Susanin dei ragionamenti. Per oggi mi fermo: sto cominciando a rimandare troppo quella cosa di Pushkin e dei sandali, che invece è importantissima.
Però, Cenerentola con gli stivali – in Russia c’è pure quella (Золушка в сапогах) – se mi riportate a casa entro la mezzanotte vi invito a cena nel villaggio deluxe “Sapozhok” (indovinate che cosa vuol dire). E con questo passo, chiudo, un passo alla volta, e su careghe: e come direbbe Tolstoj, au revoir.

