Non ancora un manifesto. Solo qualche volantino.
Двенадцать стульев — первый сорт
С устройством электрическим
Плывут, качаясь, в дальний порт
По водам атлантическим.
Dodici sedie di ottima qualità
Con meccanismo elettrico incluso
Fluttuano verso un porto lontano
Per le acque dell’Oceano Atlantico
(S. Marshak, Dodici sedie)
Скоро только кошки родятся!
Ancora un po’ e solo gatti nasceranno!
(Il’f e Petrov, Le dodici sedie)
Il sucareghismo, dicevamo (dicevamo qui). La trascrizione in russo, dicevamo anche, mi imbarazza un po’. Chi ricorderà un post precedente (Giornata Internazionale del “sukin syn”), avrà già individuato il motivo del mio imbarazzo: la parola suka. Che in sé non ha niente di imbarazzante, essendo una parola: e dunque unione arbitraria di segni, che assurge a significante di un suo proprio significato. Ma senza perderci negli oceani del relativismo linguistico, limitiamoci a dire: la parola сука [suka] vuol dire “cagna”. Nel senso di femmina di cane, se ci serve la denotazione: nel senso di femmina di maiale, se ci serve la connotazione. Per illustrare meglio il concetto useremo un’illustrazione. Ecco un illustre quadro di Latyshev, illustrissimo esponente della sots-art, che anche se si pronuncia sozzart è solo la variante post-URSS della pop-art:

(dalla collezione privata di I. Markin)
Avrei potuto imbrogliare, agilmente: e addurre speculazioni semantiche a far risalire l’origine della dottrina del Sucareghismo ai sucharì, delicatezze immancabili su ogni tavola calda o ghiacciata sovietica. Impropriamente spacciati per “fette biscottate” da moderni wikipedismi, in realtà erano molto più piccoli, duri e raffermi di ogni loro traduzione moderna. Illustro anche loro:

Anche in questo caso si tratta però di una traduzione troppo patinata. I sucharì sovietici avevano il gusto che il sintagma lascia in bocca. Stampini di sabbia indurita, in sacchetti di carta velina che anticipavano le scoperte più raffinate della nanotecnologia: fatti di un velo trasparente, quasi senza il velo e pure senza il trasparente. Ma con il sapore di un sogno, e della nostalgia. I suchari, oltretutto – ed è questo il nocciolo duro (mai come loro) della questione – avevano la stessa caratteristica delle careghe. O delle ciliegie, se preferite – che io preferirei lasciare in giardino. Uno tirava l’altro, cioè.
E però, appunto, imbroglierei. La traslitterazione è una scienza esatta, consistente e biunivoca: e k non è ch. Kuj è una cosa, come ricorda il famoso proverbio Куй железо пока горячо [Batti il ferro finché è caldo]: tutt’altra cosa è con la ch – però in questo post siamo già stati fin troppo volgari e х** lo rimandiamo in quel, post…
Ma torniamo sul pezzo. L’ispiratore di questa denominazione è, dicevamo anche questo, il sior Mario Braga (lasciate facili accostamenti, in queste pagine non ci sono spifferi per la politica). Il cognome è gustoso non poco, ne converrete: ancorché un venetismo, “braga” è parola che merita tutto il rispetto di un traduttore. Per esempio, erano di certo braghe quelle nelle cui tasche Majakovskij teneva il passaporto sovietico. Per non parlare di “carega” in sé, che meriterebbe un intero trattato (né ci perderemo in variazioni lombarde o in antologiche pagine di cinema nostro). Ma il sior Mario non c’entra niente con questo. E ho il sospetto che nemmeno le sedie lo interessassero punto.
Arriviamo allora all’essenza. Il discorso verteva su un nuovo possibile -ismo. Una tendenza – non convenzionale com’è convenzione chiamarla oggi – che non necessariamente aspira a diventare corrente: se non elettrica (per sedie etiche di delitti estetici), o meglio d’aria – preferibilmente fresca e non fritta. Il sucareghismo vuole essere un movimento in difesa di certo disturbo grafomane della personalità, di un atteggiamento ossessivo-compulsivo nei confronti della vita, di deliberata ingordigia nella scrittura. È contro una sedicente “semplicità” della lettera quando nasconde, manifestandosi, buonismo sospetto. Ma andiamo per gradi: una carega alla volta.
La volta scorsa abbiamo scomodato Pushkin, salvato dalle onde in tempesta in cui lo aveva gettato il cubofuturismo. Pushkin perché anche se negro una coperta d’oro non gliela si nega, Pushkin che è sole e nome felice, Puhskin che è il “nostro tutto” – nostro cioè loro, il loro, tutto. Pushkin che è gatto, pianista, dj – e Pushkin Boom Beat, Pushkin Funplugged, Sasha Pushkin & special guests.
[Allucinazioni? Intermezzo:
https://hu-hu.facebook.com/vechernij.urgant/posts/3801767963268779
Gljukoza cita quella suka di Pushkin, da Urgant, la sera]
Pushkin – ma che c’entra con il sukaregizm? Pushkin perché scriveva Evgenij Onegin in tutte le lingue (russe) contemporaneamente, dando così origine alla lingua letteraria nazionale, prima di lui dilaniata in contraddizioni insanabili; Pushkin perché nell’Onegin scriveva su tutto – superando false dicotomie tra argomenti degni o meno di letterarietà; Pushkin perché riconosceva e teneva tutte le contraddizioni dicendo la vita è così e dunque anche la letteratura; Pushkin perché, come diceva magistralmente Vittorio Strada introducendo un magistrale volume di Jurij Lotman sulla magistrale maestria di Pushkin nell’Evgenij Onegin, Pushkin nell’Evgenij Onegin attraverso l’accumulo, la ripresa, la saturazione, la variazione, il ritorno, l’aumento, il rinvio, la ripetizione, l’accumulo, la ripresa, la saturazione: otteneva una scrittura di rara purezza. Di levità calviniana. Una linea precisa. Una freccia – attraverso la densità della vita.
No, il sucareghismo non riconosce tra i suoi ispiratori Arcimboldo. Perché pure simile nel paradigma, il suo risultato è barocco. Il suo prodotto è un disegno finito, ma caricaturale. Arcimboldo è algebra, non armonia. È Salieri, non Mozart.
Se “su careghe” è in Pushkin, “e su careghe” è anche nel “nostro tutto” nostro, Dante, che non ci è mai stato meno distante di adesso che compie moltissimi anni, come Dostoevskij quest’anno (che però è giovanissimo rispetto a lui, e anche questo sarebbe un bel discorso). Dante come lo descrive Mandel’shtam, in quel pezzo – tra tutti quelli meravigliosi del suo Discorso-Conversazione su Dante – che abbiamo impromptu tradotto a lezione con i ragazzi, dove dice più o meno così, lui Mandel’hstam: “penetrando a misura delle mie forze nella struttura della Divina Commedia, giungo alla conclusione che l’intero poema è costituito da una sola, unica, unitaria e inscindibile strofa”. E dice poi, in quello stesso paragrafo, che la Commedia è come un corpo, un organismo vivente, teso al suo divenire, a una superiore integra unitarietà, è un cristallo che cresce con le sue dodicimila facce in accordo armonioso – un solo respiro, viene da dire a me, un crescendo, un accumulo di viva tensione – ritmo, tensione, accumulo, ritmo, tensione: che tutto risolve in luce. Migliaia di voci e silenzi orchestrati per un unico scopo: la descrizione della verità. Il sucareghismo, ovviamente, ha i suoi assi cartesiani nelle coordinate di Rozanov, non mi stancherò mai di ripetere questa stupefacente utopia: i “mille punti di vista”, le “coordinate della realtà”.
“E su careghe” diventa cammino, diventa percorso, non dettaglio fine a se stesso ma dettaglio dopo dettaglio – isotopia. E diventa facilmente una scala, naturalmente. Che però ha sempre anch’essa più direzioni – a volte infinite. Escher?
È scala di Raskol’nikov che porta nel sottosuolo, scala di Giacobbe che porta in paradiso, scala di Gogol’ che porta nella morte, scala di Salieri che assassina i suoni.
Lestnica. Lestvica. Gamma.
E la scala impossibile di Penrose, sì.
Su e zo sessantanòve
Caze nove da fitar
Daghe la pappa al vecio
Daghèla col scuglièr.
(filastrocca veneta per una conta.
A me ricorda l’inizio dell’Evgenij Onegin,
al sior Braga non credo)
Ivan Susanin della scrittura, c’è anche questo, dicevamo, nel sucareghismo. Il piacere di trascinarsi dietro il lettore, fargli fare il giro più largo, fargli perdere l’orientamento, la trebisonda, le definizioni, imboccare la via più lunga per fargli vedere più cose, una alla volta, una dopo l’altra, singolarmente importanti e non meri accessori – e cercare di arrivare alla fine per meravigliarsi con lui del modo in cui il tutto, sensatamente, consapevolmente, si tiene. Un gatto che si mangia la coda? Forse. Ma un gatto che soddisfatto, poi, si addormenta sulla sua sedia.
Прыгнул
Кот Пушок
На стул,
Потянулся
И — уснул.
Очень
Кот Пушок
Устал —
Целый день
С хвостом
Играл!
(И. Мазин)
Lo chiamano horror vacui, a volte. Io ce l’ho nella vita, nelle mie case, ce l’ho nel cervello, dentro al mio studio, in ogni pensiero, – e nella scrittura. Ma di recente ho scoperto che si può chiamare anche amor pleni, che mi piace di più. O ancora più bello: amor infiniti.
E con questo, per oggi, metto via le altre careghe.
Блажен, кто поутру имеет стул без принужденья,
Тому и пища по нутру и все доступны наслажденья.
Beato colui che al mattino possiede una sedia senza costrizione,
A lui è cibo a suo piacimento, e ogni divertimento – a disposizione.
(A.S. Pushkin)
