Maestri (da Margherita)

Esce questo libro, c’è un capitolo dedicato a mio padre.
Mi hanno chiesto un ricordo personale – segue ciò che ho offerto per queste pagine
.

Ogni atto di memoria è un gesto di cultura. “La memoria è arte”, scrive A. Genis. Grazie, Roberto. Mio papà aveva un’ottima memoria, lui.

Mi chiedi un ricordo, poi. Non riesco a scegliere. Ti offro una pagina, un po’ a caso, di fotografie.

Mio papà atleta di salto in alto. Ogni volta che entra in pedana, Luigi, prima di saltare, appoggia a metà asticella un fazzoletto rosso di seta. Un gesto elegante, bizzarro. Aristocratico quasi. In realtà, quel fazzoletto gli serve per sapere dov’è l’asticella. Ha una rara deformazione alla cornea, Gigino (chi lo conosce lo chiamerà sempre così, a dispetto dell’eufemistica stazza): ci vede pochissimo, ma lui non lo dice quasi a nessuno. L’unica cosa, non ha mai potuto prendere la patente. Ma si faceva portare dagli altri, che gli piaceva. (No, io non lo conoscevo ancora, qui. Me l’ha raccontato mia mamma, l’aneddoto. Ma il fazzoletto lo ricordo anch’io).

– Mio padre è nato in un piccolo paese del Friuli che ha lasciato da giovane per rincorrere un suo sogno. È andato a Roma, dove c’era allora l’unica Accademia in Italia che formava insegnanti di educazione fisica – quella stessa Scuola, di Formia, che ancora oggi è Scuola Nazionale di Atletica Leggera. Quella stessa di Pietro Mennea. Nel suo paesino, mio padre ha continuato a ritornare, lo ha sempre portato nel cuore, non lo ha dimenticato mai. Io ci passo ogni volta che vado al mare. Ma lui aveva il suo sogno, anche, nel cuore. ­–

Sì, il sogno di mio padre era lo sport.

(I Giochi invernali di Cortina 1956).
(Le Olimpiadi di Roma 1960).

Mio papà che mi porta, da piccola, alla sua scuola, l’I.T.I. “G. Marconi”, quando deve andarci il pomeriggio: dà le chiavi al custode, mi lascia in palestra con quei giocattoli forti e buoni che forgiano desideri, mente lui, il “prof. Scarpette” (guai a usare le scarpe da ginnastica fuori palestra!), va alle riunioni degli insegnanti.

(poi mi faceva giocare anche con altri. La maestra Zub per esempio, ginnastica preparatoria alla scherma: quanto mi piaceva, al Tre Pini, ogni tanto giocavo anche a calcio, con i maschietti, correvo velocissima, li facevo impazzire). 

Mio papà che mi porta al Campo Scuola di Voltabarozzo, lui è Direttore del Campo, una pista di atletica in terra rossa, lui lì lavora, io gioco. Con la sabbia del salto in lungo, i giavellotti grandissimi, i pesi che non riesco a sollevare, i dischi che non so nemmeno come si tengono, i materassoni del salto in alto, i blocchi di partenza che devi piantare i chiodi lunghissimi con un martello speciale. Poi tornavo a casa, io piccolina: e il mio papà lo disegnavo bello, quadrato, con i pochi segni di cui ero capace gli facevo le spalle larghe e le gambe forti, e poi riempivo il foglio con i timbri “Il Direttore del campo”, “Il Direttore del campo”, “Il Direttore del campo”. Poi quel timbro si era con il tempo consumato e nei miei disegni si stampava soltanto “Il Direttore del c…”. Ma anche questo a lui piaceva.

(Le formazioni della Juventus ninnananne domestiche; la Domenica Sportiva, le Olimpiadi, i Roland Garros, i Mondiali di Calcio… – feste di famiglia davanti alla tv. Il mio bambolotto di Roberto Bettega. Il manifesto con il pugno chiuso di Smith e Carlos).

Mio papà che ci fa ginnastica alle elementari: e riesce a coinvolgerci tutti – anche chi “si vergogna”, chi inventa storie, chi porta le giustificazioni. Di tante persone diverse – ci sono già alcuni atleti che vogliono sempre vincere tutto, ci sono i più deboli che tutti prendono in giro, e le ragazzine che si sentono meno belle che si vergognano a mettersi in tuta, figuriamoci in pantaloncini: ma lui riesce a farne una “squadra”. Noi con quella squadra, quell’anno: vinciamo i Giochi della Gioventù. Io me la ricordo benissimo, la foto di quella classe. In magliettina bianca e pantaloncini corti bianchi. In calzetti bianchi. Qualche femmina che cercava di tenersi i collant ma mio papà protestava. E le scarpe bianche, di gomma, qualsiasi. A fine gara non ci ricordiamo nemmeno più chi è antipatico a chi. Siamo, tutti: felici. Ancora prima che di aver vinto. Siamo felici di averlo fatto insieme.

(Varotto – Pasto – Soravia – Romano. L’orgoglio di una staffetta che per la perfezione dei cambi arriva in finale ai Campionati Italiani Assoluti. È il 1967, a Marina di Massa. Avrebbero potuto vincere. Avrebbero. Ma non importa.

Importa. Non c’erano, i suoi Moschettieri, a portarlo a spalla nel suo ultimo viaggio. Scusa, avevo due anni, nel 1967, papà).

Le domeniche di “austerity” lungo gli argini in bicicletta.
Mio papà che mi insegna il tennis, il nuoto, lo sci. E poi l’atletica.

(Zoff, mi chiamava. A me piaceva).

Mio padre mio primo allenatore, il Prato della Valle, i cani del vicinato, i suoi cronometri adesso miei. (Poi io sarei andata all’Assindustria. Poi io avrei scelto un’altra vita. Ma con la grammatica dello sport dentro ­– e della musica, anche).

Mio papà e i “suoi fratelli” di vita. Mio papà e l’amicizia.
Mio papà e le sue “benedizioni”. Mio papà e le sue imitazioni.

(e poi Hemingway. I viaggi. E Eugenio Barba).

“Sulla realtà bisogna avere 1000 punti di vista”, scrive il filosofo russo V. Rozanov. Sono queste, diceva, le “coordinate della realtà”. Mio papà ha cercato di incarnare tutti i punti di vista cha ha potuto, sulla sua realtà.

Sullo sport come istruzione, educazione, cultura.
(Parole chiave: Sacrificio. Condivisione. Partecipazione. Rispetto).

Sullo sport come Gioco.
(Parole chiave: Onestà. Gioia. Bellezza).

Sullo sport come vita.
(Parole chiave: Resistenza. Determinazione. Resilienza. Umiltà).

Sullo sport come libertà: cioè responsabilità.

Tedoforo di un ideale di mondo.

Alla lezione inaugurale di quello che sarebbe stato il suo ultimo anno accademico di insegnamento, un grandissimo studioso russo, Jurij Lotman, si domandava:

– E dunque, cosa studiano (imparano) le persone?
E dopo un’agile serie di riflessioni (era un atleta del pensiero), concludeva:
– Le persone imparano (studiano): Conoscenza, Memoria, Coscienza.

Mi piace ricordarle sempre, queste parole, quando si parla di “maestri”. E le ripeto spesso quando consegno il premio per gli insegnanti di Educazione Fisica nelle scuole, intitolato a Luigi De Michiel, alla Festa annuale dello Sport.

Grazie del tuo testimone, papà. Io indosso le tue medaglie quando vado alla Festa della Repubblica in Ambasciata d’Italia, nella mia Mosca.

E poi ovunque, dentro di me.

Margherita (di Luigi) De Michiel