Annoto: da sviluppare a lezione. (Sul punto di vista, o Degli stereotipi).
“CIAO 2020”, il successo di Ivan Urgant (vedi Wikipedia) che sta conquistando lo spazio italo-russo del web. Uno dei volti più famosi di tutte le Russie di adesso, re del peak time del Pervyj Kanal, animale anomalo di teleputin, rinuncia a condurre il tradizionale veglione di fine anno: “Un anno di troppa sofferenza, non abbiamo l’umore adatto né, confessiamo, la forza”. Lo spiega in un brevissimo, accorato messaggio che precede un programma “mutuato dalla televisione italiana” (quasi una prefazione “Ot avtora” à la Dostoevskij). L’amore tra Russia e Italia è di lunga data, antologici i tempi in cui i cittadini sovietici imparavano un italiano perfetto ascoltando le canzoni di Pupo, Toto Cutugno, I ricchi e poveri. Io stessa ho il ricordo di un seminario internazionale tenutosi in una delle più prestigiose università umanistiche di Mosca, terminato di fretta perché era in arrivo una delegazione dal nostro Sanremo. Ma tralasciando questo, che richiederebbe (richiederà?) un racconto lunghissimo: “quest’anno non abbiamo potuto viaggiare, né abbiamo potuto ospitare i nostri amici stranieri”, continua Urgant. Di qui l’idea di una serata diversa, che metta in onda un sedicente “programma in diretta della TV italiana: CIAO 2020“.
Quello che segue è un delirio. Giovanni Urganti, a capo di una squadra di volti e voci di una Russia famosissima d’oggi, conduce uno show che si snoda tra citazioni acrobatiche, parodie funamboliche, traduzioni linguistiche e culturali condotte sul filo di un rasoio di occam. Ci ritroviamo catapultati in uno spazio-tempo mai esistito ma esistibile, dove classici russi, canzonette moderne, pop italiano si vestono di abiti esageratissimi: il carnevale diventa realtà. Per lo spettatore anche più scettico è del tutto impossibile non scoppiare a ridere. “Non ho parole”, “sono ipnotizzato”, “estasi pura”, i commenti dei primi amici cui inoltro il link. Il programma diventa, secondo una definizione che non so come sia ancora permessa, “virale”: non solo in Russia ma anche in Italia. Magia del web che permette la propagazione immediata di ogni contagio comunicativo. Ammetto: io stessa ho contribuito in tempo reale alla diffusione di questo sgangheratissimo verbo. Ma conoscevo i destinatari delle mie insinuanti missive. Ammetto: io stessa ho visto e rivisto più volte questo demenzialissimo mantra di fine anno bisesto: e ho riso del riso più bachtiniano. Incontenibile e triste.
Ho riso, perché io so di cosa ridevo. “Io” cioè essere che vive nel mondo del “tra”. Io-traduttore condannato alla schizofrenia culturale. Io servitore di due padroni (F. Rosenzweig), io-ventriloquo io-gianobifronte rassegnato a una duplice fallibilità. Perché la scommessa raffinatissima di questa trashissima operazione è troppo alta in realtà. E degli errori di traduzione non qui: a partire dall’inganno del titolo (naturalmente inesistente), che tradisce in russo la presenza di due modi di salutarsi – che sia hi o goodbye. Della traduzione sarà in altro luogo cioè in altro tempo.
Qui solo: della tristezza.
La tristezza di un’illusione, di cui nemmeno ci rendiamo più conto. L’illusione della conoscenza, l’illusione della profondità. Ci basta la superficie. Ci basta il momento. Ci basta ridere e dimostrare di avere capito. Ma io vi chiedo: di fronte a un testo così, di ingannevole semplicità, di cosa ride la Russia che ride, di cosa ride l’Italia? L’unico riso davvero perfetto, io credo, è quello di chi ha inscenato lo show. Il resto è finzione. E l’altro, fantasma di specchi fittizi: ci serve per ridere dei suoi errori, di cui lui non sa, perché non gli importa. Ciaòni, Italia!