Sulla poesia quantistica, naturalmente sulla traduzione, e sulla vita, cioè.

Oggi ho deciso che “assecondo con nonchalance” (cit.) la mia – banalità. La banalità del più o meno, in questo caso: di un pensiero appena accennato, con cui magari mi inabisserò altrove.

Ha ancora a che fare con Schroedinger, да-с. In qualche modo. Col suo gatto cioè.

Perché ascoltavo, l’altro giorno, durante un evento molto bello di Stazione Rogers, una lettura di poesia quantistica (link). Più precisamente, ne ascoltavo la spiegazione, o meglio – la dimostrazione. Nel senso, non ho ascoltato la sua lettura. Semplicemente, perché non si possono leggere più letture contemporaneamente. Ah no?

(tra parentesi mi annoto: ricorda qui quella cosa dei “fisici” e dei “lirici”, della poesia di Boris Slutskij che è accennata anche altrove, degli scienziati e degli umanisti che nella Russia di inizio anni sessanta discutono su chi debba avere il ruolo trainante nell’intellighenzia, nello sviluppo della società, dell’umanità, e la risposta ovviamente è – tutti e due. fine di questa annotazione).

La poesia era molto bella, ho deciso, e ho deciso che ne avrei scritta una anch’io, ma sono andata anche oltre e non l’ho scritta perché per una poesia quantistica non deve fare molta differenza se la poesia esiste o no, visto che esiste e non esiste contemporaneamente. Allora l’ho scritta (non scritta) e l’ho anche già dedicata, era un silenzio a cinque dimensioni, mi hanno detto che è piaciuta non piaciuta non detto e io sono stata contenta, di averla dedicata, questo senza dubbio, sì.  

Poi ricordavo quella cosa della musica, dei suoni che sono la risultante di più suoni armonici, che si sentono tutti anche se a noi sembra di sentire solo una nota, la fondamentale; o anche un accordo, musicale, pensavo, non ci sconvolge mica pensare, pensavo, che delle note siano suonate – contemporaneamente, che dei suoni insomma per noi esistano insieme nello stesso istante. (ve l’avevo detto che avrei detto banalità. e dunque proseguo). E poi i sogni. Il sogno. E il sorriso di un quadro. E i pentimenti.

Poi pensavo alla lettura di un testo, che si arricchisce (il testo? la lettura?) di tutte le sue letture precedenti, di tutte le letture e riletture che sono state fatte, di quel testo, e alla sua scrittura e a tutte le riscritture che a quella scrittura cioè a quella lettura sono seguite. A tutte le traduzioni, cioè. (vi avevo anche detto che proseguivo un po’ su quella linea, quindi non irritatevi). Il palinsesto, poi. Non quello della TV. Quello della filologia.

Il palinsesto. Un testo fatto contemporaneamente di più testi. Di scritture stratificate. Fisicamente. Ma ogni testo, di fatto, lo è. E il testo di traduzione lo è in massimo grado. In quanto testo che contiene contemporaneamente l’originale e la sua riscrittura. Ma anche l’originale lo è. In quanto testo che contiene potenzialmente tutte le traduzioni che di esso sono state sono e saranno (come Lenin) fatte. Mi sto incartando.

Ma quello che voglio dire, è che nel momento in cui io leggo (rileggo) una poesia (eravamo partiti da questo), e penso (io lo penso) a come tradurla, quella poesia è già contemporaneamente tutte le sue possibili versioni – più se stessa. Tutte le sue possibili riscritture. E tutte le sue possibili (come Lenin di prima) letture. Senza andare tanto a cercar di inventare la poesia quantistica.

Insomma, questa cosa della coesistenza è una cosa che esperiamo in continuazione, voglio dire, e anche quella cosa dell’indeterminazione, nella cultura. E non è che ci scandalizziamo tanto.

E siccome vita e cultura, come dicono i russi ogni volta che possono, sono la stessa cosa, a me è venuto subito in mente il mio papà, che tra pochi giorni fa gli anni. Mio papà è morto che son già diciott’anni, ma lui gli anni li fa lo stesso e io li festeggio con lui, perché mio papà non c’è più ma c’è eccome, e se non è realtà questa che amiamo chi “non c’è più” e con lui parliamo tipo in continuazione, e se non è realtà questa cosa dell’amore che è una cosa che non c’è ma eccome se c’è, insomma scusate ma non capisco proprio cosa c’è di difficile a capire che delta iks delta erre maggioreuguale a accatagliatosudue.

Il principio di indeterminazione di Heisenberg, ci tengo a dirlo, io lo cito a braccio, scusate la nota, lo leggo dal braccio di un’amica, cioè. La mia amica è fisico. Io che sono un lirico, sul braccio ho tatuato una poesia d’amore al mio gatto.

Terry Eagleton, Wittgenstein: “Qual è il senso del tutto, paperino?”
L. Wittgenstein, Filosofia: “A noi, ad esempio, interessa la traduzione da una lingua in un’altra lingua che abbiamo inventato noi”.

Insomma. Mi sono incartata. Ma tanto su questa cosa continuerò a pensarci su e vi impezzerò ancora, con qualche pensiero, che magari piazzerò qua e là, finché non riuscirò a dirlo per bene – e allora l’avrò capito davvero, e si convincerà anche A. Potebnja, che era convinto anche lui che un pensiero inespresso non è un pensiero, e che un pensiero se non si riesce a dirlo bene vuol dire che non lo si ha ancora ben chiaro in testa. Существует ли мысль без слова, si chiedeva lui, “esiste forse pensiero prima della parola?”. Ma su questo ritorneremo, perché è un bel pensiero, e merita tempo.
{e su margherita che scrive per luigi de michiel, dopo, il primo luglio, leggete qui}.

Quella che volevo dire in realtà qui è una cosa un po’ diversa da quelle di prima, è questa qui – e anche su questa ritornerò, perché mi sta molto a cuore. È una cosa che ha a che fare con la pratica, della traduzione, e con la sua – ontologia. Perché secondo me quella cosa che tipo la traduzione è sì, come risultato, un testo lineare che si sviluppa in superficie al livello del sintagma, ma è anche un processo che realizza quel sintagma per scelte progressive – mutuamente esclusive e contemporaneamente possibili – effettuate di volta in volta al livello, profondo, del paradigma: ecco, questo c’entra, col gatto, e c’entra eccome.

E tra intertesto e interstellar c’è qualcosa di più profondo di quello che sono riuscita a dirvi adesso. E che a noi sembra impossibile da capire con l’intelletto, come la Russia. Ma che invece, semplicemente, è.

– Che ti prende, gatto?
– Io? Io… non so. Però sento che in questa azione c’è un significato cosmico così grande che non mi entrerà mai tutto in testa.

Musica: Leo Kotte, “Room 8” (Room 8 era un gatto, giusto per chi).

In copertina: “C’è e non c’è. Stazione Rogers” (il titolo stupido è mio, la foto di Karin Plattner. L’evento in questione: fa già parte anche del vostro orizzonte. È l’ultima voce: qui).

[PS. Per farmi perdonare vi offro in fine una poesia quantistica. No, non quella di prima – quella, ve l’ho detto, era dedicata. Un’altra. A rime alterne. Eccola qui:

].