Il cane di Schroedinger, o Sulla traduzione (e su Dostoevskij un po’)

— Душенька! что-то здесь как будто коты шепчутся?
— Какие коты? Чего вы не выдумаете?
(Ф.М. Достоевский, Чужая жена и муж под кроватью)

– Tesoro! Com’è che sento tipo un bisbigliare di gatti?
– Ma quali gatti? Che cosa ti inventi?
(F.M. Dostoevskij, La moglie altrui e il marito sotto il letto)

Non so, è che ultimamente mi sono ritrovata a citare più volte anch’io il più citato dei gatti quantistici. Non ci si dovrebbe permettere di volgarizzare la divulgazione, sono d’accordo. Di mio la parola “quanto” ho il coraggio di pronunciarla soltanto in negozio. (Questa è una nota a margine di una cosa che ho letto di recente, in traduzione dal russo ovviamente: parlava delle Scuole di Fisica in Russia e di una rivista che si chiamava, secondo loro, “Quanto” [Kvant]. Non mi dilungo in considerazioni scontate – sul prezzo e sul senso. Delle retrotraduzioni è sotteso). E però.

Parlavo, tutte queste “più volte”, di traduzione ovviamente, anzi di revisione: di quel passo in più che si deve fare alla fine, finita tutta l’immensa fatica, finiti gli equilibrismi tra “ciò che si trasmette / ciò che si trasforma / ciò che si perde / ciò che si sacrifica” (P. Torop); finite tutte (solo perché c’è da consegnare) le riletture e le riscritture – una volta tradotto il testo, insomma, prima di lasciarlo andare, di liberarlo da sé. Parlavo di quel cambiamento radicale di punto di vista che il traduttore, già di per sé schizofrenico, al suo meglio ventriloquo, deve attuare, inscenare, assumere massimamente alla fine: quando rilegge la propria traduzione, per diventare il suo proprio – lettore. Dimenticando di sapere la lingua da cui traduce, cancellando dalla propria memoria ogni eco che l’originale continua a offrirgli, subliminale, a giustificazione delle sue scelte (“dài, tu sai cosa c’era scritto lì, si capisce benissimo”): indossando gli occhiali di chi legge il suo testo – il testo altrui nella sua riscrittura, cioè. E invece.

Invece troppo spesso rimaniamo (noi traduttori) chiusi nella stessa scatola del nostro testo: noi, e la nostra traduzione. Incapaci di separare la sua eco dal nostro ego, ci poggiamo sull’alibi dell’originale, senza accorgerci che l’originale è appunto “altrove” – e lì nella scatola siamo di fatto noi e l’originale “sostituito”, trasformato da noi, che noi crediamo oggettivo ma che non riusciamo a oggettivare. Mentre fuori dalla scatola c’è il cane dell’autore (?!) pronto a denunciare la nostra parzialità.

Schroedinger: “Rrrron–fiuuuuuuu”
Cane di Schroedinger: “Pss, Ervin, senti qua. E se noi chiudiamo il gatto in una scatola e gli spariamo dentro del gas? Poi dimostriamo l’influenza dell’osservatore nella fisica quantistica!”

Oppure, fuori di scatola. Il gatto in realtà è Schroedinger stesso, l’autore cioè, presente e assente allo stesso tempo, la magia è sotto gli occhi di tutti ma nessuno la vede perché l’autore è quantistico il traduttore newtoniano il lettore galileliano. E per tutte le volte che ti abbiamo chiuso dentro una scatola, noi i traduttori – tu e tutti i non tu – Fedor Michajlovitch, pardon.

Dostoevskat?

Ah. Cosa c’entra Dostoevskij? Dostoevskij c’entra sempre. A maggior ragione quest’anno che sono duecento anni dalla sua nascita. E poi, di sé, Dostoevskij diceva di sentirsi “la vitalità di un gatto”: kошечья живучесть, la chiama – in una lettera a A.E. Vrangel’, c’entra la condanna ai lavori forzati, roba da archivi di Istituti di letteratura, quale meraviglia… Che Internet non seppellisca mai quei sotterranei dell’anima, invernali, infernali, quegli orari, quegli odori – quegli onori. E poi c’è un gatto che di sé dice di chiamarsi Fedor Dostoevskij, vive a San Pietroburgo, ed è campione del mondo, non credo di scrittura però. È un gatto nero, certo. Credo che aspiri doppiamente, all’immortalità.

— Dostoevskij è morto, — disse la donna, ma con poca convinzione.
— Protesto! — esclamò calorosamente il gatto. — Dostoevskij è immortale
(M. Bulgakov, Il maestro e Margherita)

PS. “Una punteggiatura corretta… è essenziale!” (T. Rudolph, Quanti, Milano, Adelphi, 2020, p. 64)

Lettura consigliata:
Г. Служитель, Дни Савели, Москва, АСТ, 2018.
Perché? Leggetelo qui se volete 😉
http://loveread.ec/view_global.php?id=74946

In traduzione?
G. Sluzhitel’, Il mondo secondo Savelij, Milano, Brioschi ed., 2020 (trad. di S. Vicidomini, giusto perché è giusto). Anche di questo si era parlato, sì, l’ultima volta che ci siamo visti a Mosca, poco tempo fa. [il link è all’ultima voce di (Mosca, Russia), ma vi rimando da qui].

PS del tutto personale. Scrivo oggi che hanno operato il mio gatto. Di una massa rilevata all’osservazione, sentita al tatto, individuata dall’ecografia, indagata in endoscopia. Che una volta aperto il gatto – non c’era più. C’era un bolo che non c’era. Ho scoperto di avere io, il gatto di Schoredinger. A meno che non fosse tutto un’allucinazione: “taciturna”, noblesse oblige.

RelativiTati
(della serie Gatlassie)

In copertina: “Ritratto di Félicette” (Parigi, Centre Pompidou, 25 gennaio 2019). Félicette è stato il primo gatto nello spazio. E l’unico. Il gatto era un clochard parigino, l’unico di quattordici a resistere, si dice gli altri siano stati scartati perché diventati troppo grassi, che nello spazio doveva andare un gatto maschio che poi (da vero gatto e da vero maschio) è scappato, insomma, la vera pioniera fu lei, misconosciuta lajka–t.

E se posso permettermi, Schroedinger: nella scatola dovevi mettere il cane. Questione di punti di vista, dirai. Ma checché si creda, il posto del gatto non è dentro una scatola. E nemmeno su un razzo. È sopra un libro. Quello che stai traducendo, ogni traduttore lo sa.