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Ieri ho partecipato a un appuntamento di un ciclo seminariale tenuto da una carissima amica e splendida professionista, l’attrice Sara Alzetta. Bellissimo il titolo, del ciclo: “Altro tempo, Altro corpo”. Ma di questo ci parleremo in un altro momento. Perché io l’ho scoperto dopo, che si chiamava così. Io sapevo il titolo dell’incontro, (non sono convinta fosse davvero il titolo dell’incontro), che era più o meno: “La webcam è noiosa sperimentiamo qualche furbizia”. Io ho partecipato naturalmente non come attrice, visto che non lo sono (nemmeno aspirante o amatoriale), ma per quello che sono: io. I partecipanti erano pochi ma di assoluta eccezionalità. Interessantissimo l’incontro, alta la qualità. Ma nemmeno di questo qui vorrei parlare. Vorrei parlare del tema.

Perché si parla spesso, di quanto difficile sia la Didattica a Distanza: ma pochi ne parlano dal punto di vista dei professori. L’altro giorno con una pioggia di parole-freccia ho fatto San Sebastiano del rappresentante degli studenti di turno. Si parlava della DaD (mai acronimo fu più insipido), il malcapitato non ha fatto a tempo a dire “Questa cosa deve finire al più presto…..” che gli ho sparato contro la raffica delle mie argomentazioni, neanche mirassi a portarmi a casa tutti i peluche.  La prima serie di munizioni riguardava naturalmente la situazione pandemica, della serie, stiamo giocando tutti a mamma-casetta? E su questo punto ho tenuto un trattato degno di una TED. Il secondo ci porta invece al centro di oggi: MA VOI AVETE IDEA DI QUANTO SIA TERRIBILE INSEGNARE COSì?????????????? E la noia è l’ultimo dei fastidi. Insegnare in ciabatte offende la dignità personale. Vanifica ogni serie di DcMarten’s col tacco, di scarpe coi panda, di calzettoni con le scritte in russo; non stiamo parlando di narcisismo ma di metodi didattici, che sia chiaro. E poi insegnare seduti, noi logorroici peripatetici: “Il discorrere è come il correre”, più o meno, diceva Galilei, insegnare così fa male all’ernia, non si posson tirare le caramelle dei Krasnyj Oktjabr’, usare la disco-ball a forma di Sputnik, insomma ci manca tutta una serie di ausili didattici fondamentali nella formazione del discente universitario. Ci mettono a disposizione piattaforme efficientissime, tavolette grafiche, microfoni, webcam, connessioni ultraveloci. Ci obbligano a registrare le lezioni, i ragazzi lo sanno, anzi lo esigono come loro diritto, e dunque se tu cerchi di interagire con un nome che sai essere in quella classe, il più delle volte hai il silenzio: il coriandolino colorato c’è, le iniziali pure, e dietro a quello – non lo sapremo mai. Per contro settantadue sconosciuti ti entrano in casa e la mostrano a chi vogliono mangiando popcorn. La webcam. Un puntino. Nemmeno la dignità di un palcoscenico e la consapevolezza dell’inquadratura.  E se per caso qualcuno si manifesta in contemporanea a te, cadi nell’inganno di guardarlo negli occhi: e la telecamera documenta impietosa il tuo ingenuo occasionale strabismo.

DD, mi piacerebbe più chiamarla, 2D forse, didattica in due dimensioni: ma anche questa sigla è imprecisa, la dimensione è soltanto una, o forse nessuna di fronte a quei centomila che chissà cosa fanno mentre tu cerchi di mantenere il tuo centro. Io ho adottato una mia strategia, sempre per rimanere nel tema: tolgo loro la facilità. Non condivido lo schermo, non scrivo sul foglio word, ho portato via dal mio studio universitario in cui non vado da marzo scorso una lavagna, uso il tablet come telecamera per inquadrare il computer, cambio inquadrature, uso le casse in bluetooth per la musica, scrivo a penna su fogli, insomma rendo tutto più scomodo. Poi faccio loro lezione sui formalisti russi, su quella cose dello “straniamento” e della “forma involuta”, del “vedere” le cose non solo “guardarle”, ecc. ecc. Probabilmente nel mentre loro chattano sul gruppo della lezione. Il risultato saranno giudizi blasfemi nel questionario finale sul corso. Ma io non cedo.

Al primo anno si facevano i cori per imparare l’alfabeto (io facevo i rap), adesso i vicini non ne possono più di sentirmi cantare l’inno in tutte le forme: sovietico, con Stalin, senza Stalin, senza parole, con le parole ma russo, che tanto ne sanno loro che sono versioni diverse la musica è dal ‘44 sempre la stessa, e poi rock e con medley e senza è tutto aberrante.

Per fortuna c’è Sasha. Che impietosita dal mio parlare al nulla evidente, interviene sempre mentre faccio lezione. Credo che a fine corso dovrò riconoscerne la coautorialità: “Russo I. Corso per principianti. Docente: Margherita De Michiel, Aleksandra O. Cikova”. Che naturalmente è un gatto. Anzi gatta, Cikòva.

PS:
Consigli di lettura: D. Charms, Casi, Milano, Adelphi, 2014.
Cito:
«A me interessano solo le “sciocchezze”, solo ciò che non ha alcun significato pratico. La vita mi interessa solo nel suo manifestarsi assurdo. Eroismo, pathos, ardimento, moralità, commozione e azzardo sono parole e sentimenti che mi sono odiosi. Ma comprendo perfettamente e ammiro: entusiasmo ed esaltazione, ispirazione e disperazione, passione e riservatezza, dissolutezza e castità, tristezza e dolore, gioia e riso».
Sic.