Continuo, “parole in libertà”.
Fatta esistere la “esilienza”, per via di derivazione non è difficile ricavare anche il “resilio”.
Potrebbe essere il nome per quello che abbiamo vissuto: non una forma di vero esilio, qualcosa di altro – dove pure però le parole hanno avuto un significato importante. Parole date, parole mancate. Ritrovate, inventate, stanate. Stonate. Troppe, le parole stonate.
“Per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua” – ritorno a rileggere Brodskij, che così continua: “Quella che era, per così dire, la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula” (I. Brodskij, Dall’esilio, cit.). Il linguaggio in esilio, incalza Brodskij, da liason privata, intima – diviene “destino”.
Mi viene da dire, “resilio” potrebbe essere parola a indicare il ‘residuo’ che questo nostro ‘esilio’ ha lasciato – nelle nostre parole. Insomma, “resilio” come parola per il nostro esilio – o per il suo prodotto.
Non fosse che è una parola brutta. Ma forse proprio per questo, sarebbe adatta. Perché non sono così sicura che questo viaggio scomodo che ancora non è finito ci abbia lasciato parole – belle.
E mi viene ancora in mente Bachtin, la sua “parola violenza”: “La parola-violenza presuppone un oggetto assente e muto, che non sente né risponde, la parola-violenza non si rivolge ad esso né da esso richiede consenso – essa è parola a distanza, in assenza”.
[Слово-насилие предполагает отсутствующий и безмолвствующий предмет, не слышащий и не отвечающий, оно не обращается к нему и не требует его согласия, оно заочно].
Parola “a distanza”, parole in absentia…
E poi mi viene in mente Tolstoj, la sua grandiosa dottrina della “non-resistenza al male con la violenza” (непротивление злу насилием).
E mi vien da sognare parole così.
Ecco, ci avesse lasciato almeno questo, questo infinito periodo tragico che stiamo vivendo. No, non è una guerra, non offendiamo chi è morto in guerra chi in guerra è vissuto, ma non offendiamo nemmeno chi è morto in questa epoca e chi in questa epoca vive.
Ci avesse lasciato almeno, questo “andrà tutto bene”: parole diverse. Al di là delle parole alla moda.
Invece siamo sommersi da parole logiche, illogiche, dialogiche. Nessuna parola “bio-logica”. Ed è di queste che avremmo bisogno.
Di parole “bio”, sì: eco(ego?)-sostenibili, biodegradabili nella coscienza. Riciclabili in valori.
Parole eco-friendly. Che rispettino l’ambiente. Che rispettino noi.
Parole non-violente. Che alla violenza oppongano la propria dignità.
“E Mosca guardava per ore lo spazio senza ritorno” (A. Platonov, Mosca felice, Milano, Adelphi, 1996).
Invece.
PS. Parlavamo anche di altre parole, ieri. Io il verbo “evincere” l’ho usato una volta soltanto. Era la cena finale del congresso annuo dell’Associazione Italiana Studi Semiotici, lavori conclusi, i brindisi di commiato. Io ho alzato il calice, ho ringraziato i colleghi della loro lévinasiana accoglienza, e con voce modesta ma ferma ho intonato per loro, con buona pace della Principessa: “All’alba evincerò…”
(applausi).
[aberrazione per aberrazione: esempio di violenza a parole. Teatro Bolshoj a parte. Perché la volgarità prende le forme più subdole. E sì: loro non sono tre. Sono i “Kvatro” – ma poco cambia (cancellare dalla propria memoria culturale il link dopo averlo cliccato)]
E mi permetto: sulla volgarità in parole (e in silenzi) cfr. infra, 9L, WA_10 (“Dedicato”).
(In copertina: dalla serie “Cucina non moscovita. 3 (Attenzione: in giro ci sono solo cretini)”, 2021).
Sic.